Il concetto di “professione” e il suo derivato di “professionista”, nell’immaginario popolare, è sentito come qualcosa o qualcuno di prestigioso, elitario, distintivo. È raffigurato come un titolo, un’etichetta, uno status. Un’icona sociale di affidabilità. Da emulare, rispettare, onorare.
Ma anche disprezzare e schernire se non riesce a “salvarci” dai nostri problemi quotidiani. Se il suo operato disattende le nostre aspettative. Si, perché quando ci consegniamo al medico o all’avvocato di turno, crediamo che possano levarci dai guai. Anche quando ci rivolgiamo all’architetto che progetterà la nostra casa o al professore che ci esaminerà. Insomma, guardiamo a loro con la speranza e l’aspettativa alta di chi ci allevierà, almeno provvisoriamente, le vicende nefaste della vita. Spesso l’esito positivo dei loro pareri e delle loro attività ci regala sprazzi di felicità, di liberazione, di momentaneo senso di benessere. Esistono altre numerose professioni (più o meno regolamentate) a cui ci affidiamo per i più disparati bisogni che sono in grado di aiutarci e sollevarci dall’incarico.
In senso etimologico, il termine dal latino professio–onis, deriva da professus, participio passato di profiteor che significa “dichiararsi apertamente”. Professare una propria “fede”.
Secondo Carr Saunders e Wilson (v., 1954), il termine profession compare in Inghilterra nel XVI secolo, a designare l’attività lavorativa nei tre campi della teologia, del diritto e della medicina. Le lingue del mondo antico, che pure conosceva le figure del sacerdote, del giurista e del medico, non possedevano un termine corrispondente. Ciò si può spiegare con le trasformazioni che l’esercizio delle tre attività subisce nel corso del Medioevo, in particolare con la nascita e lo sviluppo di una nuova istituzione sociale: l’università. Nelle tre facoltà superiori di teologia, legge e medicina i candidati alle tre professioni subiscono un processo di formazione prolungato e formale che conferisce loro non soltanto e non tanto un patrimonio di conoscenze specialistiche (all’epoca relativamente ristretto e di dubbia validità ed efficacia, almeno in medicina), quanto una cultura generale di carattere elitario. Se si tiene presente l’assoluto predominio della Chiesa sulla cultura dell’epoca, ben espresso dalla prescrizione per studenti e professori universitari di prendere almeno gli ordini minori, si comprende come l’esercizio di queste attività tendesse quasi a confondersi con la ‘professione’ della propria fede.
Con il processo di secolarizzazione che investe il mondo della cultura e delle università il termine ‘professione‘ perde progressivamente i suoi connotati religiosi, ma mantiene un significato elitario ed esclusivo con il quale penetra, nel corso del XIX secolo, nel nascente sistema capitalistico, subendo contemporaneamente un’estensione a nuove occupazioni.
Professione quindi come atto di dichiarare le proprie idee, il proprio ruolo e il proprio modo di concorrere al progresso materiale e spirituale della società. Dichiarare la vocazione di come s’intende stare al mondo. Professione come missione. Non solo come agire per ricavare guadagno.
Cacciare è nel nostro DNA. Da sempre. A partire da 200 mila anni fa, quando la specie Homo Sapiens si è fatta largo conquistando il globo a colpi di intuizioni e di sacrifici. La storia della nostra specie s’intreccia con la capacità del nostro cervello e del nostro corpo di alternare innovazioni e duro lavoro. Intuizioni e metodo. Percezioni e fatica. Fantasia e concretezza. Homo sapiens, durante la sua lunga storia evolutiva, ha sviluppato sofisticatissime tecniche di caccia che gli hanno permesso di conquistarsi un ruolo privilegiato di supremazia rispetto alle altre specie. Cosa è cambiato rispetto a secoli fa? Se il corpo e il cervello, da un punto di vista anatomo-funzionale sono (quasi) gli stessi, che variazioni abbiamo aggiunto nel nostro retaggio culturale che ci hanno permesso di raggiungere livelli di esistenza così sofisticati?
L’arte di cacciare si è evoluta nel tempo grazie allo sviluppo del nostro cervello e al progresso delle società umane sempre più tecnologicamente avanzate. La vera novità dell’epoca contemporanea è l’aver scoperto la caccia a prede immateriali per sopravvivere e raggiungere l’agognata felicità. Anzi, per dirla tutta, queste stesse entità immateriali, sono diventate le nostre prede preferite. Non più un lusso per pochi illuminati. Il motivo risiede principalmente nella trasformazione sociale ed epocale che negli ultimi trent’anni si è dispiegata intorno a noi con maggior vigore. Provocando caos e disorientamento diffuso. Questo cambiamento ci ha letteralmente spiazzato. Ci ha rotto le uova nel paniere. La cosiddetta società postindustriale ha mutato l’assetto di base della nostra esistenza, indirizzando il nostro sguardo e i nostri bisogni verso aspetti immateriali del quotidiano. Se, nella precedente società industriale, erano gli aspetti materiali a giocare un ruolo di primo piano, ora, si mettono sullo sfondo. La nuova pratica della caccia all’immateriale ha consentito e consente tuttora di ottenere maggiori benefici emotivi in termini di orientamento al mondo. Cosa cacciamo continuamente durante la nostra giornata? Soprattutto, siamo consapevoli di possedere strumenti e tecniche specifiche o ci affidiamo al caso?
Lo sviluppo delle nostre capacità cerebrali e comportamentali va di pari passo con quelle delle società in cui organizziamo, insieme agli altri, l’esistenza. L’attuale società postindustriale, è bene sottolinearlo, non cancella con un semplice prefisso (post) tutto quello che abbiamo costruito nell’era industriale, ma lo riformula per fare posto a nuovi modi di concepire la vita associata. In sostanza, la nuova società che si sta di-svelando, è alla ricerca del senso perduto. Esaurita ogni residua energia, si fa fatica a trovare modelli alternativi che indirizzano la nostra vita. La crisi è (anche) figlia del disorientamento ormai cronico dell’Homo. Della sua inerzia nel trovare una via di sbocco verso il futuro. Una direzione verso cui sfogare passioni, emozioni, idee e progetti. Ecco che sentiamo inconsciamente il bisogno di trovare nuove prede immateriali da cacciare: emozioni, simboli, informazioni, valori, estetica, creatività, etc.
Svaniti i punti di riferimento del passato che ci guidavano dalla culla alla tomba, siamo incapaci di elaborare un progetto di futuro dotato di senso e pathos. Siamo cacciatori e prede delle nostre stesse paure interiori. Il disagio sociale nasce dall’incessante e inconcludente ricerca del senso perduto.
Talent Hunter è un membro della società postmoderna che va a caccia della preda immateriale più bizzarra, imprevedibile e capricciosa che ci sia: l’attitudine comportamentale.
L’attitudine comportamentale o talento primario rappresenta, oggi, un fattore imprescindibile per raggiungere l’auto-realizzazione e la felicità. Non esistono stipendi d’oro, titoli onorifici o beni materiali di ogni tipo che possano soddisfare la fame che abbiamo di aver riconosciuto il nostro talento. L’essenza torna prepotentemente a recriminare la propria presenza. Il proprio posto nel mondo. Qual è la missione sociale di Talent Hunter?
Cacciare quanti più talenti possibili e garantire a ognuno di essi una chiave d’interpretazione della loro storia.